Il Metodo Hudolin: origini, sviluppi e prospettive future – di G. Carcangiu
Presentazione a cura di Andrea Manfredi
Il libro di Giampaolo Carcangiu sul “Metodo Hudolin” è importante e necessario, a parere di chi scrive, per almeno due ordini di motivi fra loro interconnessi.
Il primo riguarda il bisogno di colmare un vuoto, o per meglio dire di riparare a un’ingiustizia storica. Quella per la quale il nome, la figura e il contributo scientifico di Vladimir Hudolin, senz’altro uno dei maggiori e più originali protagonisti nel campo delle scienze umane dell’intero Novecento, rimangono tuttora sconosciuti al pubblico e ignorati, o considerati tutt’al più con una certa sufficienza, anche da molti “addetti ai lavori”. Come ricorda l’autore, questo non vale certo per le decine di migliaia di famiglie, cittadini e professionisti sociosanitari direttamente coinvolti nei programmi territoriali da lui concepiti e realizzati, ma è indubbio che al movimento dei Club sia finora mancato nel nostro Paese il riconoscimento pubblico raggiunto, per fare un esempio, dalla psichiatria democratica di Franco Basaglia.
Malgrado lo spessore culturale e scientifico delle radici del pensiero di Hudolin e della sua formazione, malgrado la sua piena appartenenza al movimento planetario di deistituzionalizzazione, malgrado la portata storica rivoluzionaria delle sue osservazioni, malgrado il notevolissimo impatto pratico delle sue realizzazioni, l’approccio ecologico sociale appare ancora agli occhi dei più come un fenomeno di nicchia, ai limiti del settarismo, una corrente di pensiero “alternativa” e un po’ semplicistica, una proposta magari generosa ma velleitaria, sostanzialmente priva di rigore, insomma da lasciare fuori dal salotto buono della Scienza ufficiale. Lo stesso mondo dei Club rischia di colludere talvolta con questa (mancata) considerazione, in una sorta di complesso di inferiorità che ci può portare a collocarci in una posizione di mera “testimonianza”, subalterna e funzionale alla cultura generale, scientifica e sanitaria maggioritaria. Quando invece il nostro approccio possiede le solidissime basi scientifiche, culturali e metodologiche che vengono riaffermate in questo libro, in cui l’autore sintetizza, amplia e sviluppa il suo lavoro di ricerca trentennale.
Diverse ragioni possono forse spiegare questo mancato riconoscimento. La provenienza di Hudolin dalla “piccola” Croazia, un paese percepitpo come periferico, può avere reso difficile a un certo nostro provincialismo accogliere le lezioni di un maestro straniero, per di più nemmeno americano (malgrado i suoi lunghi anni anglosassoni). In più, l’ambito di partenza delle sue ricerche, l’alcologia, era (ed è) generalmente considerato “minore”, secondario rispetto ad altre più nobili branche mediche, psichiatria compresa. Proprio nel campo alcologico, poi, la carica innovativa delle concezioni hudoliniane suonava particolarmente eversiva rispetto al sistema consolidato di cultura, tradizioni e interessi economici che ruota intorno alla produzione e al consumo dell’alcol.
Ma la più profonda ragione del misconoscimento del pensiero e del lavoro di Hudolin rimane a mio parere l’inquietante radicalità delle sue conclusioni, la sua sistematica opera di demistificazione, non solo e non tanto dei miti della cultura alcolica, ma prima di tutto del mito della specializzazione e della delega che ancora pervade la cultura generale e sanitaria: la proliferazione delle diagnosi e l’illusione delle terapie come atto puramente tecnico; un mito che ingabbia l’agire medico e qualsiasi professione d’aiuto nel paradigma dell’erogazione di prestazioni a un soggetto passivo e in una concezione univoca e normativa della salute e della malattia. L’avere guardato con occhi nuovi, con l’apertura mentale del vero uomo di scienza, alla sofferenza degli esseri umani e delle loro relazioni, l’avere dimostrato con semplicità, in teoria e nella pratica del lavoro del Club, l’inutilità di tante categorie, l’avere detto che “il re è nudo”, suona ancora oggi a molti difficilmente perdonabile. Inaccettabile. Rivoluzionario. Antiscientifico.
Come se la scienza non procedesse, da sempre, per salti, per rivoluzioni. Come se non fosse vero che “la scienza normale, l’attività nella quale la maggior parte degli scienziati passa inevitabilmente quasi tutto il suo tempo, si basa sull’assunzione che la comunità scientifica conosce il mondo per quello che è. La scienza normale spesso sopprime novità fondamentali, perché queste inevitabilmente sovvertono i suoi assunti di base” (Kuhn, la struttura delle rivoluzioni scientifiche). Una concezione della scienza autoritaria e paternalistica, che ci vuole tutti un po’ bambini. E invece succede che, come fa dire Brecht al suo “Galileo”: “Dove per mille anni aveva dominato la fede, ora domina il dubbio. […] È risultato che i cieli sono vuoti: e a questa constatazione si è innalzata una gran risata d’allegria”.
Ecco, prima di tutto questo libro è il racconto di quel processo storico di messa in crisi della cultura dominante che ha accomunato il meglio delle scienze umane del Novecento, e di come da questo terreno fertile si sia alimentata e sia emersa la personalità di Hudolin. Prendendo le mosse dal suo precedente “Vladimir Hudolin. Storia di una rivoluzione scientifica”, qui ampliato e approfondito, Giampaolo Carcangiu ricostruisce la biografia umana e culturale di uno psichiatra geniale, audace perché ragionevole, inserendola nel periodo storico in cui questa si è sviluppata, ricapitolando per i lettori un secolo e più di storia politica, intellettuale, sociale, scientifica, culturale, compresi i suoi aspetti criminali (uno per tutti, la spesso dimenticata corresponsabilità della psichiatria ufficiale nella barbarie nazifascista). Il punto centrale di questa ricostruzione storica è l’affermazione, la dimostrazione e la rivendicazione della indiscutibile scientificità del contributo hudoliniano e del metodo da lui messo a punto, con buona pace di chi lo vorrebbe ridurre a uno strumento empirico per smettere di bere alcol, o a un generico esercizio di buoni sentimenti e buona volontà.
Ma, per forza di cose, il libro non si ferma qui, ed è questo il secondo grande motivo che ne rende essenziale la lettura.
Se il senso più profondo dell’eredità di Hudolin è la critica continua di ogni sistema dato, di ogni sovrastruttura e incrostazione non necessaria, allora è di vitale importanza, a partire dalla conoscenza approfondita della sua storia, evitare il rischio che l’approccio ecologico sociale si cristallizzi a sua volta in un sistema chiuso, statico, autoreferenziale, tanto rassicurante per chi lo pratica quanto irrigidito in una sorta di “ortodossia”. Un rischio che ha corso, per esempio, quell’altro grande movimento di rottura e di critica che è stata la psicoanalisi.
In questo senso il passaggio decisivo è la proposta di rinunciare definitivamente alla centralità dell’oggetto-alcol nelle pratica del Club e alla limitazione ai problemi alcolcorrelati e complessi del suo campo d’azione.
È stato probabilmente inevitabile che i fondamenti dell’approccio ecologico sociale siano stati elaborati a partire dalla critica della cultura alcolica; mai come in quel caso infatti sono lampanti le contraddizioni di una cultura che da un lato promuove il consumo di una sostanza tossica e dall’altro opera delle categorizzazioni arbitrarie per difendersi dai danni della sostanza stessa, attribuendoli a una minoranza deviante.
Ma tale contraddizione non è certo esclusiva del campo dei problemi alcolcorrelati; può essere facilmente riscontrata in tanti altri esempi di stili di vita dannosi e si estende più in generale al modo di concepire la salute, il rapporto fra responsabilità personale e comunitaria, fra scelte e condizionamenti, fra cittadini e istituzioni sanitarie. Ecco che allora, come dimostrato ampiamente nella terza parte di questo libro, il Metodo Hudolin “funziona” in una varietà di situazioni e condizioni diverse, come d’altra parte già affermato a chiare lettere dal suo fondatore.
Non si tratta certo di creare tanti piccoli sistemi di Club iperspecializzati in questa o quella “problematica”, quanto piuttosto di spostare il fuoco del lavoro del Club dalle singole problematiche, dal concetto stesso di problematica, al nucleo centrale del rapporto di ogni singolo essere umano con le sue proprie sofferenze e difficoltà e con quelle dei suoi simili. Ed è nella seconda parte del libro che vengono approfonditi nella maniera più semplice e aggiornata i temi che sono il nucleo centrale e profondo dell’approccio: la promozione della salute, l’ecologia integrale, la spiritualità ecologica, il disagio esistenziale e la resilienza, la ricerca sulle “life skills”, l’empatia, fino alla “certificazione” neurobiologica delle intuizioni hudoliniane data dalla scoperta capitale dei neuroni specchio. Tutto questo va a comporre una concezione adulta, matura, necessariamente complessa, della salute e dell’esistenza, compresa quella conquista estrema della maturità che consiste nel riconoscere che siamo tutti bambini di fronte alla vita.
Non è facile raccogliere un’eredità. Ci si può limitare ad “adorare le ceneri”, come afferma la splendida citazione di Mahler riportata nel testo, o si può scegliere di metterla a frutto “custodendo il fuoco”, quell’elemento che proprio nel variare incessante delle sue forme trova la sua vitalità e forza. Questa seconda posizione richiede indubbiamente coraggio, ma, ancora secondo il “Galileo” brechtiano: “Non credo che la pratica della scienza possa andar disgiunta dal coraggio. Essa tratta il sapere, che è un prodotto del dubbio; e col procacciare sapere a tutti su ogni cosa, tende a destare il dubbio in tutti”. Il dubbio e la speranza, aggiungerei, perché, come recita l’antico frammento di Eraclito “Se non spera, non troverà l’insperato: ne è difficile la ricerca e ardua la via”. Ardua e interessante e ricca e divertente e imprevedibile.
Grazie Giampaolo, buona lettura e buon lavoro a tutti.
Andrea Manfredi